Quando la corvèe uccide.


Enzo Pellegrin

24 gennaio 2022

Per gli amanti del concetto di “legalità”, appare interessante ricordare che all’epoca dei vascelli e delle navi di linea, una legge consentiva ai comandanti di Sua Maestà Britannica di arruolare forzosamente malcapitati. Questi, colti nei bar del porto o nelle vicinanze, storditi con un bastone o con qualche droga, si ritrovavano imbarcati a forza. Venivano chiamati “terrazzani”, landsmen, in inglese, termine che definiva l’inesperto di mare, in opposizione alla gente di mare formata, i marinai o seamen. 

Privi di qualsiasi formazione marittima, spesso non sapevano nuotare, nè reggersi sul ponte col mare agitato, ma erano obbligati a prestare la propria opera, rischiando di finire fuori bordo o d’essere mutilati da qualche scotta o caviglia.

La terribile ed ingiusta morte del giovane friulano Lorenzo Parelli può evocare l’immagine di simili barbarie. Lorenzo è andato a scuola per farsi un’istruzione. La legge di una periferica repubblica europea lo ha obbligato ad andare a lavorare gratis negli ultimi tre anni della scuola superiore. Del mondo del lavoro, ha fatto l’esperienza più terribile, e sempre più frequente: l’infortunio mortale.

Sin da quando è nata, la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” è sempre apparsa ai giovani come una sorta di corvèe. E’ stato uno dei mezzi per piegare una pubblica istruzione sempre più trascurata alle esigenze di profitto delle imprese italiane. Dagli accordi tra MIUR e multinazionali come la McDonald’s, che consegnarono più di diecimila studenti nelle mani di insalubri e pericolose catene di montaggio della ristorazione, a quelli che pomposamente vennero definiti “Stati generali dell’alternanza scuola-lavoro”, poco è cambiato.

Sfruttamento, assenza di formazione sull’infortunistica, plateale sostituzione di lavoratori stipendiati con stagisti a costo zero hanno continuato ad essere denunciati dai giovani. Una serie di tutele sulla carta hanno dimostrato di non impedire a Lorenzo di trovare la morte, come non hanno impedito ad altri stagisti di essere vittima di sfruttamento ed infortuni.

Tuttavia, non sembra  sufficiente riflettere sulla sola effettività delle garanzie contro gli infortuni, sulle condizioni di lavoro degli stagisti. Occorre chiedersi se mandare obbligatoriamente uno studente a lavorare gratis per un padrone sia un compito dell’istruzione oppure, dell’istruzione, sia solo uno sfruttamento.

Con l’alternanza scuola-lavoro, l’imprenditore, nella migliore delle ipotesi, si trova lavoratori a costo zero che può formare secondo le esclusive esigenze della propria produzione, mentre in precedenza era costretto a formare a proprie spese gli operai che assumeva, pagandoli all’interno di un contratto di formazione-lavoro. Al termine dello stage potrà anche assumere giovani già “educati” a proprio esclusivo piacimento, con benefici fiscali pagati dalla fiscalità generale.

Con lo stage, è inoltre in grado di imporre la propria egemonia fin dal momento formativo dello studente, magari spingendolo ad adattarsi a condizioni di ricatto e precarietà, educandolo ad accettare condizioni lavorative sempre peggiori.

Ma il fine dell’istruzione è forse quello di formare un essere umano secondo le esigenze produttive di un’impresa privata? Oppure quello di fornire una competenza più completa e generale possibile, formando cittadini lavoratori preparati, magari anche a combattere dialetticamente le pretese del capitale che li impiega?

E sempre parlando di infortuni, qual’è il modello di sicurezza sul lavoro in base al quale ci si dovrebbe formare? Quello configurato da leggi indipendenti e dalla scienza liberamente insegnata in una scuola pubblica e laica, per raggiungere il modello di rischio minore, oppure quello che si è indotti ad accettare nella prassi e nelle esigenze produttive di un’impresa proprietaria?

Proprio in materia di “alternanza scuola-lavoro”, appare interessante – senza pretesa di competenza pedagogica .- riflettere su ciò che scriveva Antonio Gramsci. “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, Quaderno 12, nota 2, p. 1549).  Per Gramsci, la scuola era un vero e proprio lavoro, il lavoro destinato a costruire un cittadino formato ed indipendente. Tale indipendenza, in quanto tale, non poteva essere interrotta o sviata da altre attività, le quali vanificassero, appunto, il “lavoro della scuola”, difficile quanto un “apprentissage” tecnico.

Delegare questo “lavoro della scuola” a soggetti che, il lavoro, hanno interesse solamente a sfruttare, potrà formare un indifeso servitore.  Difficilmente da questo connubio può generarsi un lavoratore responsabile, in grado di interagire criticamente con i metodi di produzione e i sistemi di tutela forniti dall’imprenditore all’interno di un processo produttivo.

Comprendere questo significa comprendere come  la lotta alle morti sul lavoro parta proprio dalla formazione di lavoratori responsabili ed indipendenti. La ricattabilità, imposta sin dalle aule scolastiche, genera futuri morti sacrificati – come Lorenzo e tanti altri – sull’altare produttivo, e per profitti privati.

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