Bertolt Brecht: La scritta invincibile

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Boraest vuole accompagnare l’ultimo giorno del vecchio anno ed il primo del nuovo ricordando un grande poeta e drammaturgo: Bertolt Brecht.

La scritta invincibile, Die unbesiegliche Inschrift, è stata composta nel 1934. Continua a leggere “Bertolt Brecht: La scritta invincibile”

La libertà di impresa che uccide la libertà.

Enzo Pellegrin

Sullo scandalo banche si potrebbe azzardar a dire che lo sviluppo della vicenda abbia perfettamente seguito il percorso gradito al potere ed al capitale.

Continua a leggere “La libertà di impresa che uccide la libertà.”

Le vere cause della crisi delle banche popolari

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Domenico Moro e Marco Rosati

www.resistenze.org – osservatorio – italia – politica e società – 22-12-15 – n. 570,

La tragica vicenda del pensionato suicida di Civitavecchia e la disperazione di centinaia di obbligazionisti delle quattro banche (Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Etruria, Banca Marche e Cassa di Risparmio di Chieti) che, a seguito del Decreto “Salva Banche ” del Governo Renzi, hanno visto azzerati i loro risparmi costituiti da obbligazioni subordinate, hanno suscitato un forte dibattito politico ed economico. In assenza di una analisi più approfondita tale dibattito rischia di rimanere schiacciato nella cronaca mediatica e nella polemica funzionale alla Lega di Salvini, che, non a caso, ha immediatamente organizzato una manifestazione ad Arezzo, sede della Banca Etruria, a difesa dei risparmiatori danneggiati.

Questa vicenda, a nostro avviso, non parla solo di speculazione finanziaria o di comportamenti perseguibili penalmente, ma soprattutto dei profondi cambiamenti che interessano ed interesseranno il sistema bancario italiano ed europeo da qui al 2019, data di nascita di quella Capital Market Union che è un altro pilastro della integrazione valutaria, economica e finanziaria dell’area Euro.

A maggio del 2015, nelle sue Considerazioni finali il Governatore di Banca d’Italia elencava chiaramente i cambiamenti epocali a cui sarebbe andato incontro il sistema bancario e finanziario italiano: dall’accelerazione delle aggregazioni delle banche popolari e di credito cooperativo, alla nascita di una o più bad bank per la gestione dei crediti deteriorati o in sofferenza, stimati in circa 350mld di euro; dalla velocizzazione delle procedure di recupero dei crediti, alla nuova funzione finanziaria di Cassa Depositi e Prestiti (che ricordiamo utilizza il risparmio postale) e infine al meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, il cosiddetto Bail-in, appunto. Tale istituto normativo, opposto al Bail-out, ossia al ricorso di fondi pubblici per sanare le crisi delle banche e che ha visto negli scorsi anni destinare alle banche europee in difficoltà circa 800mld di euro, nasce sulla base di direttive comunitarie che sanciscono il principio che ad una crisi di una banca devono esserne chiamati a rispondere azionisti e obbligazionisti subordinati e non garantiti, escludendo i depositi fino a 100mila euro.

Quello che si è verificato in Italia in queste settimane, in cui gli obbligazionisti delle quattro banche hanno perso i loro risparmi stimati in circa 800 milioni di euro, è quindi la prima applicazione pratica di una norma europea che entrerà in vigore nel 2016 e che segue un percorso di trasformazione che va avanti dagli anni 90, da quando cioè si è aperta in Italia, parallelamente al processo di costruzione dell’UE, la stagione delle privatizzazioni delle banche e la loro aggregazione in pochi grandi gruppi, con la conseguente riallocazione del risparmio privato e non solo (ad esempio quote di salario differito con la nascita dei fondi pensione privati nel 1995 ad opera del governo Dini), a sostegno dei mercati finanziari.

Il Governo Renzi, colpito nelle regioni di storico consenso per il PD oltre che nella stessa compagine governativa nella figura del ministro Boschi, sta rispondendo a questa situazione da una parte aprendo una vertenza con l’UE per il rimborso di una quota minima delle perdite dei risparmiatori, dall’altro provando a scaricare la responsabilità su qualche funzionario truffatore di banca. Sicuramente c’è da riconoscere che non hanno funzionato adeguatamente i meccanismi di vigilanza degli organi di controllo sia esterni che interni alle banche coinvolte, nonostante esistano le norme per prevenire abusi in sede di collocamento di prodotti finanziari. Ma, come denunciano da anni i sindacati dei bancari, nella pratica lavorativa quotidiana sussistono pressioni commerciali inaudite, anche con vessazioni, ricatti e violazioni degli istituti contrattuali. Tali politiche commerciali impongono risultati immediati nella vendita di prodotti finanziari, ad alto ritorno economico per il bilancio di una banca, ma molto spesso complessi, rischiosi e collocati disattendendo leggi e normative previste. I rapporti di classe sfavorevoli si esplicitano anche in questo aspetto, ossia nella ricattabilità dei lavoratori di banca in una fase di perdurante crisi economica che, nel caso specifico, ha fatto sì che lavoratori e pensionati vedessero andare in fumo i risparmi di una vita.

Ma un altro aspetto a cui sta pensando il governo è velocizzare quanto ricordato dal Governatore Ignazio Visco: ovvero il processo di riforma del settore per imporre una aggregazione fortissima delle banche popolari e di credito cooperativo, storicamente funzionali alla riallocazione di risorse finanziarie verso le comunità territoriali e le imprese locali. Per Visco infatti “la forma cooperativa ha limitato il vaglio da parte degli investitori e ha ostacolato la capacità di accedere con tempestività al mercato dei capitali, in alcuni momenti cruciale per far fronte a shock esterni. La riforma faciliterà lo svolgimento efficiente dell’attività di intermediazione creditizia in un mercato reso più competitivo dall’Unione bancaria”. Inoltre “vanno perseguite forme di integrazione basate sull’appartenenza a gruppi bancari”[1]. In sintesi si apre una riforma del settore bancario funzionale ad una ristrutturazione dei poteri. Si chiude la fase del bancocentrismo per arrivare all’unione dei mercati dei capitali, spostando quindi il baricentro della allocazione dei capitali dalle banche a mercati finanziari sempre più integrati ed evoluti.

Quanto sta accadendo sul piano bancario e finanziario è strettamente collegato ai processi di trasformazione dell’accumulazione capitalistica, che comporta la ristrutturazione del sistema di produzione e circolazione delle merci. Il capitalismo attuale, nei Paesi cosiddetti sviluppati, è sempre meno legato all’economia domestica dei singoli Paesi e sempre di più all’economia globale. Di conseguenza, le imprese si sono internazionalizzate, spostando il proprio baricentro dai Paesi di origine al mercato mondiale. In concreto ciò significa che la realizzazione del profitto avviene in misura maggiore grazie alla esportazione di merci e agli investimenti di capitale all’estero. Tale tendenza ha subito una accelerazione con la crisi scoppiata nel 2007 e con le misure europee di austerity.

In presenza di una domanda interna ormai strutturalmente debole, a causa di un mercato e di un Pil domestici in stagnanti, le imprese che sopravvivono sono quelle orientate all’export e che delocalizzano la produzione dove i costi sono inferiori. In questo contesto rientrano anche le massicce campagne di fusione e acquisizione di imprese all’estero, che permettono alle imprese di collocarsi nei mercati più ricchi e soprattutto di realizzare economie di scala maggiori, riducendo i costi fissi. La Fiat, che si è trasformata in Fca dopo la fusione con Chrysler e che ha spostato la sua sede legale e fiscale rispettivamente in Olanda e Gran Bretagna, rappresenta un esempio emblematico di quanto questo processo sia in stato avanzato anche in Italia. Ma è tutta la struttura industriale italiana che si sta trasformando, comprese le medie imprese manifatturiere, che ne rappresentano l’ossatura. Anche tali imprese, per potersi adeguare al capitalismo globalizzato, devono aumentare le loro dimensioni e investire all’estero. Tutto ciò richiede stabilità finanziaria e disponibilità di capitali che possono essere reperiti sul mercato finanziario nazionale e internazionale attraverso la quotazione in borsa.

Lo Stato e segnatamente il governo Renzi stanno operando per assecondare e facilitare l’internazionalizzazione delle imprese mediante la modificazione della struttura finanziaria e quindi bancaria del nostro Paese. In questo senso sono significative le parole di Claudio Costamagna, presidente della Cassa depositi e prestiti che è il maggiore investitore nazionale a controllo statale: “Ma quelle aziende che hanno le capacità e soprattutto l’ambizione di voler crescere hanno bisogno di capitale di equity e non di debito. Noi siamo disponibili a mettere capitale azionario […] e poi a portarle più velocemente possibile sul mercato. Non è possibile che nella Borsa italiana l’80% sia in mano a servizi finanziari e utilities, l’industria sia il 25% sulla capitalizzazione del mercato italiano e siamo il secondo Paese manifatturiero dell’Europa”[2]. Ciò significa che le imprese si devono fondare soprattutto sul capitale azionario proprio, di equity, e non sul capitale preso a prestito cioè proveniente dalle banche. A questo riguardo quali sono gli assi dell’intervento dello Stato? Uno di essi è senza dubbio rappresentato dalla riforma della borsa e del sistema bancario, a partire dalla trasformazione del credito cooperativo tradizionale, le banche popolari, in Spa e dalla loro aggregazione in pochi e più grandi gruppi. È tale trasformazione che ha fatto venire a galla la situazione di difficoltà in cui versano alcune di queste banche.

Tale situazione non è dovuta solamente alla cattiva gestione o a comportamenti fraudolenti di singoli amministratori, che pure ci sono e vanno sanzionati duramente, ma soprattutto a fattori strutturali che vanno affrontati in modo diverso. Tra questi fattori ci sono le modificazioni nella struttura del credito a livello italiano ed europeo dovuta a precise scelte governative nazionali e sovrannazionali. A questo proposito, pochi hanno ricordato che la legge bancaria del 1936 risalente alla Grande Depressione, imponeva la separazione tra banche retail e banche d’affari, impedendo alle banche di riunire in sé l’attività di raccolta del risparmio al dettaglio e il finanziamento alle imprese. Ebbene, tale legge è stata abolita nel corso del processo di liberalizzazione dei mercati finanziari partito negli anni 90, insieme alla privatizzazione del sistema bancario italiano, un tempo in gran parte sotto il controllo pubblico.

Le vicende legate allo scandalo Parmalat rimandano a questa trasformazione, mentre quelle legate alle banche popolari ne sono solo l’esempio più recente. Infatti, la Banca dell’Etruria e le altre popolari sono di fatto collassate sotto il peso di una serie di operazioni di prestito a imprese in fallimento, che hanno cercato di compensare con l’emissione di obbligazioni ai piccoli clienti della banca. Gli effetti negativi della abolizione della legislazione degli anni Trenta sono stati accentuati dalla crisi scoppiata nel 2007. Questa, da una parte, ha messo in difficoltà il tessuto economico – composto specialmente da Pmi – cui facevano riferimento le banche popolari e, dall’altra parte, ha generato, nel tentativo di tamponare la crisi, l’immissione nel sistema bancario da parte della Bce di una massa di liquidità che è andata a incentivare le attività speculative delle banche in difficoltà, come è sempre il caso di Banca Etruria, che si è riempita di titoli di stato nel tentativo di compensare i crediti in sofferenza.

I governi e le istituzioni europee sono consapevoli della massa di crediti inesigibili detenuti dal sistema bancario, ed è per questo che stanno favorendo un processo di eliminazione dei rami secchi. Il problema è che il costo di tale razionalizzazione adesso si scarica sui lavoratori bancari e sui lavoratori in generale nella veste di piccoli risparmiatori. Infatti, la riforma si è accompagnata alla accettazione da parte dei governi italiani delle normative europee che vietano qualsiasi intervento dello Stato a sostegno dei correntisti e obbligazionisti. In particolare, il governo Renzi, recependo le normative europee, ha introdotto una normativa che scarica i costi di questa razionalizzazione del sistema bancario su chi sottoscrive le obbligazioni e sui correntisti. Dunque, la polemica di Renzi contro la Merkel sulla questione bancaria appare del tutto strumentale nel tentativo di lavarsi le mani dalle proprie responsabilità.

Comunque, il nodo attorno a cui ruota tutto il processo di trasformazione della struttura finanziaria del nostro Paese è la costruzione dell’unione finanziaria europea, ultimo tassello del processo di integrazione economica europea. L’unione finanziaria e la costruzione di un mercato unico europeo dei capitali mira allo spostamento del risparmio dal debito pubblico, cioè dal finanziamento allo Stato, attraverso l’acquisto di titoli del tesoro, ai mercati finanziari cioè al finanziamento alle imprese cioè al capitale privato attraverso l’acquisto di azioni e obbligazioni.

L’intima essenza di questo processo è profondamente reazionaria e ha implicazioni pesantemente negative. In primo luogo la volontà di drenare quote maggiori di risparmio nazionale verso il capitale e verso i mercati finanziari (attraverso fondi di investimento e operatori finanziari di vario tipo) ha fortemente contribuito a far sì che le istituzioni europee, dalla Commissione europea alla Bce, imponessero ai governi la riduzione dei debiti pubblici e di conseguenza la pratica di politiche di austerità e di draconiani tagli alla spesa sociale. In secondo luogo, il processo di sviluppo dei mercati finanziari ha incentivato la privatizzazione delle imprese pubbliche e la loro quotazione in borsa, che ha determinato anche lo spostamento all’estero del controllo di parte del patrimonio di imprese e infrastrutture con conseguenze pesanti su occupazione e sviluppo economico. In terzo luogo, precedentemente il risparmio dei lavoratori andando allo Stato non solo finanziava i programmi sociali e gli investimenti produttivi che creavano occupazione, ma fruttava anche interessi consistenti e sicuri ai piccoli risparmiatori. Se molte famiglie di salariati sono riuscite ad acquistare una abitazione e a garantirsi dei risparmi è stato anche grazie agli interessi sul debito pubblico. Infatti, il debito pubblico rappresentava uno dei collanti principali che tenevano insieme il blocco sociale keynesiano, su cui si basava il patto sociale della Prima repubblica, anche grazie alla remunerazione offerta dagli interessi sui tutoli di stato.

Oggi, invece, l’investimento nei mercati finanziari non solo comporta, rispetto al debito pubblico, interessi a volte inferiori (come nel caso proprio delle obbligazioni subordinate di Banca Etruria e di altre banche nel 2011) e rischi sempre maggiori, come prova anche il dimezzamento dell’indice della borsa italiana dal 2001 ad oggi, ma soprattutto permette al capitale di legare politicamente e ideologicamente ai propri interessi generali una parte del lavoro salariato. In questo modo, il lavoratore viene contrapposto a sé stesso. Infatti, i lavoratori salariati, sotto la veste di risparmiatori, sono incentivati a condividere gli interessi del capitale, andando contro i loro interessi più generali, allargando così la base di consenso alle politiche di riduzione del debito pubblico e alla eliminazione del finanziamento ai programmi sociali e agli investimento pubblici.

Ciononostante, i mercati finanziari rappresentano una base certo reale ma più debole di convergenza tra il capitale e alcuni settori del lavoro salariato e del piccolo risparmio rispetto a quella su cui si basava la Prima repubblica attraverso il debito pubblico. Tale debolezza è dimostrata proprio dalla vicenda delle Popolari ed è connaturata ai meccanismi comunque rischiosi del risparmio gestito. Fra l’altro la natura delle obbligazioni di tipo subordinato, a causa delle quali i clienti di Banca Etruria hanno perso i loro risparmi, sono assimilabili più a capitale proprio azionario che a veri e propri prestiti[3]. Ad ogni modo, la massa del risparmio gestito a ottobre è arrivata alla cifra record di 1.816 miliardi di euro, che proviene in parte dalla fuga dai titoli di Stato, il cui rendimento si è abbassato grazie alle politiche europee, e che non è certo per intero nelle mani di famiglie ricche e benestanti.

Una forza politica che, sulla base della attuale conformazione del modo di produzione capitalistico, voglia rappresentare il lavoro salariato e le classi subalterne oltre a difendere salari, welfare e pensioni non può esimersi dal confrontarsi con la difesa del risparmio popolare. Alla luce di questa considerazione appare fondamentale non soltanto e non tanto la denuncia morale e giudiziaria degli amministratori delle banche e le carenze delle autorità di vigilanza, quanto piuttosto l’esercizio della critica ai processi materiali che stanno dietro quanto accade, vale a dire la critica al processo di riforma bancaria e di internazionalizzazione dei mercati finanziari. Ciò ci rimanda, ancora una volta, alla centralità della opposizione ai processi di integrazione economica e valutaria europea, che rappresentano la leva principale della riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica a danno della gran parte del lavoro salariato e dei settori intermedi della società. In sintesi, la vicenda delle Popolari ci ripropone ancora una volta la questione del recupero della sovranità democratica e popolare sui meccanismi economici, che sono stati delegati dai singoli stati alle autorità sovrannazionali europee e al mercato autoregolato e, di conseguenza, la questione del necessario superamento della architettura economico-finanziaria che è inerente alla valuta unica europea. Solo con tale chiarezza di obiettivi è possibile porre le questioni che possono consentire di affrontare la crisi strutturale dal punto di vista del lavoro salariato e tra le quali vanno annoverate la ridefinizione di un sistema bancario pubblico, l’abolizione della autonomia della Banca centrale e quindi il recupero della possibilità di usare il debito pubblico e l’emissione di moneta in funzione della ripresa degli investimenti e dello sviluppo sociale delle classi subalterne e del complesso del Paese[4].

Note:
[1] Banca d’Italia, Considerazioni finali. Assemblea ordinaria dei partecipanti, Roma, 26 maggio 2015.
[2] <<Venture Capital, export, equity e garanzie: così la Cdp promuoverà le imprese subito una leva da 1 miliardo>>, Il Sole24ore, 19 dicembre 2015.
[3] Le obbligazioni subordinate, altrimenti dette junior per distinguerle dalle altre obbligazioni senior, sono emesse dalle aziende in quanto alternative alla più costosa emissione di azioni. In caso di fallimento il creditore viene soddisfatto dopo gli altri investitori senior. Il rischio di questo tipo di investimento è paragonabile a quello degli investimenti azionari.
[4] Per una trattazione più completa degli argomenti trattati si veda di Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare e euro, Imprimatur editore.

Prossimamente sull’argomento boraest pubblicherà: 

“La libertà di impresa che uccide la libertà.”

 

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Notav e repressione:l’irrinunciabile necessità del coraggio

redazione boraest, 23 dicembre 2015.

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Coraggioso e importante l’articolo di Livio Pepino su notav.info.

Coraggioso poiché enuclea quella che sinora è stata la particolare azione inquirente della Procura di Torino e la inquadra all’interno di una condotta che esula dai confini del normale esercizio dell’azione penale. Afferma l’ex magistrato che “Nulla, infatti, hanno a che fare con l’obbligatorietà dell’azione penale fenomeni e prassi come l’attribuzione di una corsia privilegiata ai processi nei confronti di esponenti No Tav, la coreografia che circonda i relativi dibattimenti (celebrati in un’aula bunker annessa al carcere costruita per i processi di terrorismo e mafia), l’istituzione presso la Procura di un pool di sostituti con competenza esclusiva nel settore (solo di recente smantellato), l’immediato e sollecito perseguimento — in caso di collegamento con l’opposizione al Tav — anche di reati di minima entità sanzionabili con la sola pena pecuniaria, l’uso massiccio delle misure cautelari persino nei confronti di incensurati, la dilatazione delle ipotesi di concorso nel reato fino a costruire una impropria «responsabilità da contesto», l’utilizzazione nelle motivazioni di sentenze e ordinanze di espressioni truculente (quasi a supportare o sostituire i fatti con gli aggettivi), l’omessa considerazione di scriminanti e attenuanti pur previste nel sistema (talora addirittura dal codice Rocco), l’accurata costruzione di un processo a mezzo stampa parallelo a quello formale e via elencando fino, appunto, all’evocazione dei fantasmi del terrorismo. Queste prassi sono, all’evidenza, frutto di scelte rispondenti alla concezione — propria dei poteri forti e assai diffusa nella politica — secondo cui le società si governano in modo centralizzato e autoritario e il confitto sociale è un elemento di disturbo praticato da «nemici» meritevoli di repressione esemplare.”

Coraggioso perché questo insieme di valutazioni critiche è costato di volta in volta altro surplus di esercizio dell’azione penale nei confronti di militanti del movimento che hanno provato ad esprimerle dai loro più deboli scranni.

Importante poiché l’insieme di comportamenti che – a dire di Pepino – esulano dall’esercizio dell’azione penale così come concepito in un ideale ordinamento democratico sono comunque una fenomenologia concreta e verificatasi dell’esercizio del potere, nella specie il potere inquirente riservato alla Procura all’interno dell’attuale Ordinamento Giudiziario.

Le “prassi” descritte da Livio Pepino sono pur sempre state attuate all’interno delle istituzioni della magistratura ed all’interno delle norme processuali che sono individuate dalle fonti costituzionali e dalle leggi come lo strumento di legittimo esercizio del potere giudiziario.

Se poi tali impostazioni hanno in qualche caso incontrato un’interna censura, limitazione e sconfessione, come appunto nel caso delle Corti di Assise di primo grado e di Appello chiamate a giudicare sull’aggravante della finalità di terrorismo accanitamente sostenuta dalla Procura Torinese, va anche ricordato che in altri casi non lo hanno ricevuto affatto, come è il caso ad esempio del processo agli oltre cinquanta imputati per i fatti del 27 giugno e del 3 luglio, dove un Tribunale (questa volta non integrato da Giudici Popolari) ha accolto le esorbitanti tesi dell’accusa irrogando pene sensibilmente sproporzionate e non ha valutato le condotte con le quali, secondo le difese, le forze dell’ordine hanno ecceduto arbitrariamente i limiti delle loro attribuzioni.

Al di là della valutazione morale e di merito dei differenti atteggiamenti, appare indubbio concludere che nel secondo di questi casi, come in molti altri, il Pubblico Ministero ha raggiunto ed ottenuto il suo obiettivo di comando nell’Amministrazione della Giustizia riuscendo ad imporre la propria volontà nella decisione.

Se quindi è assodato che all’interno dell’architettura costituzionale di un paese, un organo detentore di poteri costituzionali possa, attraverso l’applicazione degli ordinari strumenti di gestione della giustizia, promuovere e perseguire un indirizzo che esorbita dal costituzionalmente desiderato esercizio dell’azione penale, senza che contro questo asserito debordare vi siano sanzioni interdittive o contrappesi decisionali, viene spontanea la domanda: “Perché comunque non esercitarlo?”

E’ generalizzazione empirica non priva di un certo fondamento che una certa azione, anche se astrattamente vietata o discutibile, verrà senza dubbio portata avanti se le conseguenze di tale decisione non comporteranno rischi di sorta. Si tratta del calcolo utilitaristico empiricamente sotteso a molte azioni umane: non ne è esclusa l’amministrazione del Potere Giudiziario.

Processualmente, se un termine affidato all’autorità decidente è ordinatorio, non sarà sicuramente sufficiente la raccomandazione disciplinare e deontologica di rispettare ogni termine anche se non a pena di decadenza. Si troverà (ed a volte ci sarà) una adeguata giustificazione.

Ma se il termine è a decadenza, il suo rispetto sarà necessitato, pena l’assoluta insussistenza dell’azione o della decisione.

Simili regole valgono – ad esempio – nei sistemi processuali di altre nazioni, dove le regole volte alla tutela dei diritti della difesa nel momento dell’acquisizione di una prova sono previste a pena di inutilizzabilità della prova raccolta. Se si sgarra, la prova non è utilizzabile nel processo, quale “frutto dell’albero avvelenato”. E’ il contrario di quanto previsto nel sistema italiano, dove per la maggiorate delle prove e dei mezzi di ricerca della prova vige il principio “male caput bene receptum”: l’inosservanza delle norme e delle garanzie non pregiudica l’uso della prova raccolta, tranne in alcuni casi (come ad esempio le intercettazioni o la deposizione di testi nelle indagini del difensore ed altri) introdotti dal nuovo codice di rito penale e dalle sue novellazioni.

Allora occorre, sul coraggio dei coraggiosi, fondare un’ulteriore riflessione che necessita di altrettanto coraggio. Cosa fare per impedire  un esercizio dell’azione penale che si ritiene distorto.

Appare dunque evidente che per aspirare al limite del potere non è sufficiente auspicarsi che quel potere non trascenda i suoi limiti, ma occorre porre a sua guardia, controllo, interdizione un adeguato contropotere.

Ritornano allora le scandalose domande che boraest aveva – nel suo piccolo – proposto come tema di discussione e che riassumiamo qui in fondo:

  1. L’azione della Procura di Torino è stata continua, ostinata e, possiamo dire oggi, giuridicamente errata secondo diversi ordini di giudizio. Possiamo far sentire la voce del popolo in proposito?
  2. Appare così scandaloso chiedersi se nel giudizio non debba poter entrare in qualche modo una rappresentanza popolare?
  3. Come sarebbero stati i  giudizi di primo grado cosiddetti “del compressore” se interamente affidati ad una rappresentanza proveniente dalle fila della burocrazia, come è stato per i processi ai fatti del 27 giugno e del 3 luglio contro il Movimento NOTAV?
  4. Se non è scandaloso pensarci, è possibile introdurre un meccanismo di controllo popolare, almeno ex post, sulle azioni della magistratura inquirente che toccano le nostre libertà più preziose?
  5. Se non è scandaloso pensarci, è possibile introdurre nei collegi giudicanti una partecipazione popolare, pensando a tale composizione mista come un vero e proprio diritto del cittadino nel processo ordinario?
  6. Se non è altrettanto scandaloso pensarci, è possibile che tale diritto sia costituzionalmente specificato come diritto ad essere giudicati anche da una giuria di pari che rappresenti un equo spaccato della classe sociale  e di reddito di riferimento dell’imputato?
  7. Se non è infine scandaloso pensarci, possiamo pensare ad un meccanismo che individui una responsabilità civile adeguata del pubblico ministero? Possiamo finalmente pensare a separare definitivamente la carriera e la funzione inquirente da quella giudicante?

Si crede qui di condividere le affermazioni di Francesco Palazzo citate da Pepino: «un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società»

Per porvi rimedio, aggiungiamo un opinione, forse non basta l’auspicio, ma occorre riappropriarsi di quel principio costituzionale sancito al primo comma dell’art. 102, prima norma costituzionale sulla magistratura: “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.

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Il controllo del popolo sulla burocrazia: domande scandalose.

Redazione boraest, 22 dicembre 2015.

Dunque nemmeno per la Corte d’Assise di Appello di Torino – organo giurisdizionale a composizione integrata con rappresentanti del popolo- sabotare un compressore  è terrorismo.

Come non lo fu per la Corte di Assise ed i giudici popolari di primo grado, come non lo fu per le due pronunce di Cassazione che ebbero ad affrontare le vicende delle misure cautelari e che già in tale sede esclusero l’applicabilità dell’aggravante della “finalità di terrorismo”

Con buona pace di ogni malcelata irritazione sull’eccesso di congiunzioni “e” ed “o” della sentenza di primo grado che tanto inquietarono il Procuratore Generale di Torino.

L’unica voce contraria: l’organo inquirente della Procura, proveniente da estrazione burocratica.

Piace pensare e supporre che tale decisione sia anche frutto dell’integrazione (pur insoddisfacente nel nostro ordinamento, per limiti e modo di estrazione e selezione) di giudici provenienti in qualche modo dal popolo, comunque estranei alle dinamiche della burocrazia giudiziaria.

Piace pensarlo perché risolleverebbe una contraddizione mai sopita. La nostra Costituzione, reduce dalla tragedia fascista, concepì una magistratura formalmente indipendente da qualsiasi elemento, potere o forza sociale. Tuttavia la sua selezione e la sua gestione furono affidate a dinamiche burocratiche che – a ben vedere – medesimamente potevano astrattamente legittimare la formazione di una casta burocratica irresponsabile, per nulla impermeabile agli abusi che si verificarono nel passato. Soprattutto quando il tessuto burocratico che inizialmente la componeva non mutò nei primi anni dopo la Costituzione, e si trovarono nei posti di “indipendenza e irresponsabilità” soggetti che erano già lì selezionati da un regime dittatoriale passato.

Le vicende del nostro paese ne ebbero spesso prova. Basti pensare all’incriminazione assurda di Danilo Dolci ed alla repressione della lotta dei lavoratori.

Col passare del tempo la composizione naturalmente cambiò. Ma l’estrazione e la gestione burocratica della magistratura ha sempre suscitato perplessità, soprattutto nella comunanza di carriere, percorso culturale e percorsi decisionali che metteva assieme magistratura inquirente (Procura) e magistratura giudicante.

La questione fu sempre allontanata da sinistra perché imperava il leit motiv dell’antiberlusconismo, noto orizzonte politico che ha legato stupidamente la sinistra radicale agli interessi di forze che non erano né diverse né migliori della destra, ma che annacquarono il dibattito su contraddizioni fondamentali come i diritti del cittadino, la contraddizione capitale-lavoro, questioni che meritavano indipendenza. Bastava essere né con Berlusconi, né con il capitale rappresentato dal centrosinistra.

Purtuttavia, archiviato lo psiconano e postulando una rinnovata indipendenza di pensiero, appare ancora scandalosa la domanda se la condotta della magistratura inquirente possa essere in qualche maniera soggetta ad una verifica dal basso?

L’azione della Procura di Torino è stata continua, ostinata e, possiamo dire oggi, giuridicamente errata secondo diversi ordini di giudizio. Possiamo far sentire la voce del popolo in proposito?

Appare così scandaloso chiedersi se nel giudizio non debba poter entrare in qualche modo una rappresentanza popolare?

Come sarebbero stati i  giudizi di primo grado cosiddetti “del compressore” se interamente affidati ad una rappresentanza proveniente dalle fila della burocrazia, come è stato per i processi ai fatti del 27 giugno e del 3 luglio contro il Movimento NOTAV?

Se non è scandaloso pensarci, è possibile introdurre un meccanismo di controllo popolare, almeno ex post, sulle azioni della magistratura inquirente che toccano le nostre libertà più preziose?

Se non è scandaloso pensarci, è possibile introdurre nei collegi giudicanti una partecipazione popolare, pensando a tale composizione mista come un vero e proprio diritto del cittadino nel processo ordinario?

Se non è altrettanto scandaloso pensarci, è possibile che tale diritto sia costituzionalmente specificato come diritto ad essere giudicati anche da una giuria di pari che rappresenti un equo spaccato della classe sociale  e di reddito di riferimento dell’imputato?

Se non è infine scandaloso pensarci, possiamo pensare ad un meccanismo che individui una responsabilità civile adeguata del pubblico ministero? Possiamo finalmente pensare a separare definitivamente la carriera e la funzione inquirente da quella giudicante?

Il via allo scandaloso dibattito è aperto. Trattasi delle nostre vite.

Avanti avvocato… c’è Cassazione!

redazione boraest

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Sovente, quando si ripropongono questioni giuridiche concernenti l’applicazione di un diritto di difesa, pur in presenza di un ultimo, magari isolato, orientamento restrittivo di una sezione della Cassazione, i difensori vengono spesso apostrofati : “Avanti avvocato! Che questione è? C’è Cassazione contraria!”. All’obiezione che a quella singola pronuncia se ne oppongono altre contrarie, che non è comunque una pronuncia delle Sezioni Unite (che giudica in caso di contrasto di orientamento delle sezioni), l’atteggiamento di molti operatori del diritto rimane di sufficienza, senza aver riguardo al contenuto ed al merito della questione, non pensando che tale riproposizione vuole lottare contro un orientamento liberticida. Curioso sapere che a parti invertite non è così: in presenza di due pronunce di Cassazione che hanno dichiarato insussistente l’aggravante della finalità di terrorismo (tra l’altro decidendo sul caso specifico, non su un altro caso similare, pronunciandosi cioè sulla vicenda cautelare delle persone tratte a processo e su altre persone coimputate dello stesso fatto), c’è chi pensa che comunque sia doveroso presentare e sostenere strenuamente un appello contro una sentenza che correttamente aveva fatto applicazione di questi principi della Suprema Corte, chiedendo anche una pena detentiva di nove anni e mezzo. Il problema sta nel fatto che tale percorso di resistenza giuridica non è a favore di una libertà, ma piuttosto la comprime enormemente ed indebitamente, cercando in realtà uno strumento di “paura”, un deterrente che proporzionalmente finisce per ingessare ogni tipo di resistenza. Se in una manifestazione antagonista in cui è finito bruciato un compressore ti processano e ti condannano per terrorismo, ciò vuol dire che persino le opposizioni astrattamente legittimate dal diritto di difesa saranno giudicate altrettanto severamente ed incriminate. La sproporzione tra pena e fatto ha sempre una funzione ultrarepressiva (o finisce per averla). Tale condotta era stata anche accompagnata da dichiarazioni tutt’altro che tenere nei confronti della sentenza appellata come ad esempio: “ribadisco tutte le mie perplessità per decisioni in cui, ad esempio, in relazione a un articolo di legge si impiegano quasi trenta pagine per spiegare che dove nello stesso si trova la congiunzione ‘o’ si deve leggere la congiunzione ‘e’, e questo per aumentare le condizioni necessarie per riconoscere la sussistenza della finalità di terrorismo”. Parole pronunciate in occasioni ufficiali in cui veniva riconosciuto il ruolo direttivo del loro autore.

Si spera dunque che la Corte non si lasci fuorviare da tali suggestioni, perché realizzerebbe, come purtroppo spesso succede, quell’ingiustizia che Sciascia apostrofava dicendo “abolita l’immagine dell’uomo, la legge nella legge si specchia”. Spero che ciò non avvenga e che si accolga l’invito al “restare umani” tramandatoci da Arrigoni, dal momento che tale proporzionalità ed umanità è già stata attuata due volte da un supremo consesso del diritto. Spero, perché non ho sentito nessuno dire “Avanti!…”.

Un’arma utilizzata negli attacchi di Parigi del 13 novembre proviene da un fornitore d’armi in stretto contatto con la CIA

Alex Lantierglobalresearch.ca, 18.12.2015

Allo stato almeno una delle pistole usate negli attacchi terroristici di Parigi del 13 novembre è stata acquistata dalla Century International Arms e poi ri-esportata in Europa. Uno dei più grandi fornitori di armi negli USA, la Century Arms ha stretti legami con la CIA ed è stata accusata in America ed in Europa di essere coinvolta in commercio illegale di armi.

La pistola, una M92 semiautomatica, è stata prodotta nelle fabbriche di armi Zastava, a Kragujevac, in Serbia. La scorsa settimana, il direttore della fabbrica Milojiko Brzakovic ha detto di aver verificato sui propri registri che sette pistole costruite dallo stabilimento sono state utilizzate negli attacchi di Parigi. La fabbrica ha distribuito diverse pistole all’interno della ex Jugoslavia prima della dissoluzione della repubblica federale, tra la restaurazione capitalista e la guerra civile negli anni novanta, ma ha consegnato una di queste pistole nel maggio 2013 alla Century Arms, con base a Delray Beach, in Florida.
I rappresentanti ufficiali della Century Arms non hanno rilasciato alcun commento alle domande dei reporters del Palm Beach Post ed è rimasto così oscuro come la pistola del tipo M92 sia stata re-esportata in Europa. La Century Arms ha richiesto l’autorizzazione del governo per l’importazione dell’arma ed avrebbe dovuto richiedere altrettanta autorizzazione al Dipartimento di Stato per re-esportarla in Europa legalmente.
Queste notizie minano ulteriormente la versione ufficiale circa gli attacchi di Parigi resa dai governi, dai media e dai partiti di “sinistra” filoimperialisti. Avevano insistito sul fatto che gli attacchi erano frutto di un atto di terrorismo islamista nel quale il solo Stato Islamico in Iraq e Siria era coinvolto con piena responsabilità.
Questa versione era anche una frode politica, per quanto i poteri della NATO erano indubbiamente politicamente coinvolti. Gli attacchi sarebbero stati condotti da combattenti islamisti addestrati in Siria – dove la CIA, le Intelligences Europee, gli sceiccati petroliferi del Golfo Persico hanno fornito supporto finanziario e militare ad una serie di forze islamisti allo scopo di rovesciare il Presidente Bashar Al Assad. Sebbene fossero schedati e monitorati dai servizi di intelligence, a questi combattenti è stato in qualche modo permesso di organizzare gli altamente complessi e coordinati attacchi di Parigi.
La scoperta di un concreto legame tra la Century Arms e gli attacchi di Parigi suggeriscono in modo specifico come alcuni elementi nei servizi segreti abbiano potuto aiutare gli aggressori – sia inavvertitamente, a causa della loro sconsiderata politica di guerra, o deliberatamente, con lo scopo di spostare molto più a destra il clima politico.
Le élites di regime hanno reagito agli attacchi del 13 novembre in modo prevedibile, allineando le loro politiche sulla guerra e sui diritti democratici con la visione dei settori più aggressivi del complesso militare industriale. La Francia si sta preparando a imporre uno stato permanente di emergenza, effettivamente abrogando i diritti democratici fondamentali e favorendo le fortune politiche dei neofascisti del Front National (FN). La NATO scalpita per fornire supporto ai propri coalizzati in Siria, anche se questo minaccia di innescare uno scontro militare a tutto campo con la potenza nucleare della Russia.
Mentre rimane oscuro come siano stati organizzati gli attacchi di Parigi, il legame con la Century Arms suggerisce che elementi operanti per conto di servizi segreti, in via ufficiale o meno, sono stati coinvolti. a Century Arms ha mantenuto per decenni stretti legami con la politica estera USA.
Nel 1987, John Rugg, ex poliziotto e dipendente della Century Arms, ha testimoniato al Senato degli USA che la sua ditta ha fornito armi ai Contras che combattevano il governo Sandinista in Nicaragua. Questa operazione illegale, gestita dalla CIA in violazione dell’emendamento Boland approvato dal Congresso USA che aveva abrogato ogni aiuto ai Contras, è esplosa nello scandalo Iran-Contra.
Nel 2004, secondo il Palm Beach Post, le autorità italiane hanno bloccato la spedizione via nave di 7500 fucili AK47 indirizzati alla Century Arms dalla Romania, dove l’impresa aveva sviluppato legami commerciali sin da prima della restaurazione capitalista nell’Est Europeo.
Nel 2007, secondo un telegramma diplomatico USA pubblicato da Wikileaks, la Century Arms ha collaborato col fornitore di armi israeliano Ori Zeller per stoccare illegalmente e svendere fucili americani del tipo M1, spediti via cargo da Washington al sanguinario regime Guatemalteco durante la guerra civile in quel paese. Il telegramma affermava anche che i soci di Zeller sono stati condannati per riciclaggio di denaro in Belgio nel 2003, e sospettati di aver riciclato 20 milioni di dollari nei fondi finanziari di Al Qaeda con diamanti dell’Africa Orientale.
Ciononostante, il telegramma definiva Zeller una “fonte di informazioni preziosa per il Governo USA nel Guatemala” Aggiungeva che lo stesso Governo lo aveva utilizzato per procurarsi informazioni in Guatemala, Israele, sulle vendite di armi della Russia e sul cartello messicano dei narcotici.
I rapporti tra la Century Arms e i narcotrafficanti messicani andarono oltre alla semplice raccolta di informazioni. Il Centro USA per la Probità Pubblica ha riferito nel 2011 che i fucili di fabbricazione rumena del tipo WASR-10 commercializzati dalla Century Arms sono diventate le armi favorite dai cartelli della droga messicani e negli anni recenti centinaia di essi sono stati all’origine di molti crimini perpetrati in Messico.
Questo non è il primo indizio che sia esistita una connessione tra forze statali e gruppi terroristici che ha concorso a porre in essere gli attacchi terroristici in Francia.
Mercoledì, la polizia francese ha fermato Claude Hermant, un ex membro del servizio d’ordine del Front National attivo nei circoli di estrema destra nel nord della Francia nonché informatore confidenziale di polizia e doganieri per chiedergli informazioni circa gli attacchi di gennaio a Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher. La polizia ha ammesso che è stato trattenuto per chiedergli se ha venduto armi ad Amedy Coulibaly, lo sparatore dell’Hyper Cacher.
Ciò ha confermato le iniziali notizie circa il fatto che la procura di Lille stesse indagando sui legami tra Hernant e gli attacchi di gennaio. Il ministro dell’interno francese Bernard Cazeneuve ha successivamente eccepito il segreto di stato per fermare queste indagini. In ogni caso, tale decisione e molti dettagli dell’indagine su Hernant sono comunque trapelati alla stampa.
L’inchiesta di Lille sembra considerare la possibilità che Hernant stesso facesse semplicemente da mediatore in una più vasta rete coinvolta nella fornitura dell’arma allo sparatore. Voci vicine agli inquirenti hanno detto alla Voix du Nord “In questo tipo di traffici ci sono sempre uno o più intermediari. Claude Hernanti non necessariamente era a conoscenza della destinazione finale dell’arma. Ciò dimostra, in ogni caso, i legami esistenti tra certi circoli islamisti ed il crimine organizzato.”
Il periodico ha anche riferito che un ufficiale delle dogane sarebbe stato messo sotto inchiesta nel caso Hernant.

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Torino, 18-20 dicembre 1922: la strage di Brandimarte

(dal libro “Barriera di Nizza-Millefonti” di Garzaro – Nascimbene, GRAPHOT EDITRICE)

Pubblicato da ANPI Nizza Lingotto

Nell’ottobre 1922 Mussolini è al potere con la marcia su Roma. Gli operai torinesi non hanno nessuna intenzione di accettare quella situazione illegale e si fanno sentire con scioperi e manifestazioni. Il 4 dicembre Mussolini dichiara: «il mio governo è fortissimo e non ha bisogno di cercare troppe adesioni. Gli operai hanno creduto di doversi e potersi rendere estranei alla vita nazionale. se vi saranno minoranze ribelli e fazione che cercheranno di opporsi, esse saranno inesorabilmente colpite». Quelle parole non sono una minaccia teorica.

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E’ da tempo che i fascisti vogliono dare una lezione alla città operaia che nel 1917 ha scatenato la rivolta del pane e che due anni prima ha organizzato l’occupazione delle fabbriche. Nel 1919 il Partito Socialista a Torino ha raccolto il 54% dei voti, contro il 32 della media nazionale; su quasi 500 mila abitanti, 200 mila sono operai.

A Roma viene pianificata una grande incursione su Torino, presente il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi, proprietario terriero al Lingotto, che trasmette gli ordini a Pietro Brandimarte, capo delle squadre d’azione fasciste torinesi.

Il concentramento a Torino è previsto per domenica 18 dicembre e già il sabato la città si riempe di squadre che giungono da tutto il nord italia. I fascisti cercano un pretesto per scatenare la caccia a comunisti, socialisti o a chiunque manifesti opposizione al governo, e il pretesto viene raccolto proprio nella barriera di Nizza.

Francesco Prato è un tramviere di 23 anni che fa la corte alla figlia di un fornaio della barriera. Il padre, contrario alla relazione, si rivolge ai fascisti perché gli tolgano di mezzo l’importuno, che per di più è comunista. La sera del 17 inizia così la caccia la tramviere. Mentre Prato rincasa nella nebbia gelida, viene aggredito in via Demonte (Genova) tra corso Spezia e Via Stellone da una squadra fascista. Gli aggressori sottovalutano però il coraggio della vittima e Prato, pur ferito a una gamba da un colpo di pistola, reagisce e spara a sua volta uccidendo due fascisti, Lucio Bazzani e Giuseppe Dresda, ferendone un terzo. Brandimarte, a cui sarebbe bastato molto meno per scatenare le sue squadre, durante la notte diffonde un comunicato: « i nostri morti non si piangono, si vendicano».

La domenica mattina, dopo una manifestazione al teatro alfieri a cui segue una sfilata in centro, i fascisti si spargono per la città: aggrediscono, pugnalano e bastarono chiunque riconoscano come oppositore; si macchianno di centiania di ferimenti e di stupri. La Camera del Lavoro (allora presso la Cittadella) è incendiata. La stessa sorte tocca al “Carlo Marx” ed al circolo dei ferrovieri, invasi dai fascisti che ne fanno le loro basi. Gli omicidi iniziano dopo mezzogiorno; entro la fine della giornata saranno oltre una ventina, cifra probabilmente da raddoppiare dal momento che in molti casi i fascisti fanno sparire anche i cadaveri. Quattro di queste uccisioni avvengono nella barriera di Nizza.

Poco prima di cena, tre fascisti salgono alla casa di Matteo Chiolero, tramviere di 27 anni, in via Molinette 7 (oggi Abegg). Lui, la moglie e la bambina di due anni e mezzo sono a tavola. Appena Matteo apre la porta, viene assassinato con tre colpi di pistola. La moglie urla disperata ed insegue i fascisti per le scale. Questi tornano indietro, la minacciano e compiono scherzi macabri sul cadavere.

Erminio Andreoni, operaio della fotocelere, 24 anni, ex combattente, abita in Via Alassio 25. Nel pomeriggio è avvertito dai vicini di casa che i fascisti lo stanno cercando. Mentre lui fugge, la moglie Ersilia Manassero con il bimbo di un anno e mezzo si rifugia da un’amica. Verso mezzanotte la donna torna a casa giusto in tempo per vedere il marito trascinato via. Erminio viene condotto alla cascina Ceresa (dove oggi è l’ospedale S. Anna), ucciso a colpi di pistola è abbandonato in un campo. I fascisti tornano poi in Via Alassio, cacciano in strada la donna e il bambino, ammucchiano mobili e suppellettili e incendiano tutto. La vedova sarà costretta a vivere per molti anni dell’elemosina dei vicini che si prenderanno cura di lei.

Attorno alle 18, l’operaio Evasio Becchio di 25 anni è seduto in un’osteria di via Nizza con Ernesto Arnaud, muratore, quando irrompono i fascisti. I due sono prelevati e caricati su un camion. All’imbocco del ponte di legno sull’argine del Po, dopo corso Bramante, i fascisti fanno scendere Becchio e gli ordinano di avanzare nel buio. La vittima comprende ciò che sta accadendo e non si muove, finché non viene abbattuta. Arnaud, accoltellato, viene abbandonato creduto morto e riesce così a cavarsela.

L’omicidio di Leone Mazzola, 40 anni, proprietario di un’osteria in via nizza all’altezza di via Millefonti, risale al pomeriggio. I fascisti entrano nella sua osteria e cominciano a bastonare i clienti. Mazzola prostesta, ma viene trascinato nel retro bottega dove c’è la sua camera da letto. Gli aggressori buttano all’aria la stanza e quando trovano un foglio con la falce e il martello pugnalano l’oste all’addome e lo finiscono a colpi di pistola. Dopo di ciò devestano il locale. Nell’inchiesta si verrà a sapere che Mazzola era un informatore, iscritto all’Unione Liberale Monarchica, che segnalava alla polizia i movimenti dei comunisti.

Pochi giorni dopo la strage, Mussolini firma il decreto di amnistia per i delitti commessi, nel nome dell’interesse nazionale. Le inchieste che verranno compiute saranno delle farse. Brandimarte diventerà generale facendo carriera nel partito e nel governo.

La sede del circolo “Carlo Marx” è distrutta. Viene rimessa in piedi alla buona, ma una normale attività politica è impossibile, con i locali sempre sottoposti alla sorveglianza della polizia e dei fascisti. I compagni sono costretti a ritrovarsi in clandestinità nelle osterie e nei boschi della collina e di Stupinigi.

Nel 1924 il Partito Comunista organizza le cellule nelle fabbriche. Gramsci manda a Torino il giovane Luigi Longo, che incontra in barriera Giovanni Garbalena e Claudio Bricca. In realtà Gerbalena, con i compagni dell’officina Emanuel di via Canova, ha già organizzato una cellula, a cui ha dato il nome di Evasio Becchio, uno dei giovani uccisi il 18 dicembre 1922. E’ una delle prime cellule torinesi. Dopo le leggi “eccezzionali” del 1926 che cancellano ogni residuo di libertà democratica, saranno proprio questi piccoli organismi politici, entrati in clandestinità, a organizzare una resistenza sotteranea con dimostrazioni in via nizza o in via genova, comizi volanti di due o tre minuti, scritte sui muri, propaganda antifascista nelle fabbriche.

Durante la guerra e la Resistenza, i giovani del “Carlo Marx” sono ormai dei quarantenni e quando giunge dal CLN l’ordine di occupare la città, saranno loro a entrare nella sede del palazzotto fascista “Filippo Corridoni” di via Biglieri 29. A guerra finita vi creano il nuovo circolo “Carlo Marx”, che accoglie comunisti, socialisti, diverse associazioni come l’Unione Donne Italiane e i sindacati.

Cop 21, azioni a favore del clima zero

Rob Urie * | counterpunch.org   04/12/2015

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare – www.resistenze.org – osservatorio – mondo – salute e ambiente – 10-12-15 – n. 569

In concomitanza con gli incontri regolari tra i rappresentanti delle multinazionali per lo sfruttamento dei combustibili fossili e del settore finanziario, che fingono di affrontare il cambiamento climatico, e qualche gruppo delle loro vittime, attualmente Cop21, Oxfam ha pubblicato un’analisi che sostiene che “la disuguaglianza” è una causa centrale della crisi climatica. Di fronte al valore in senso ampio di quest’affermazione, la replica tecnocratica occidentale è che se emettono tutti circa la stessa quantità di anidride carbonica, a risolvere la questione sarà un “democratico” suicidio di massa. Il contingente “sviluppato” in Cop21 fa di questa formulazione il principio motivante: diffondere il consumismo occidentale nel mondo vista l’impossibilità di un consumo “pulito”.

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L’intuizione di base del rapporto di Oxfam, che profila la catastrofe ambientale quale prodotto del consumismo occidentale, colpisce quasi il bersaglio. La questione della genesi del consumismo punta agli ampi sforzi di considerare l’acquisto capitalista come fatto naturale, mentre l’atto medesimo di vendere crea una contraddizione: perché consumare energia vendendo ciò che è naturale? Prima del XIX secolo la storia era colma di disuguaglianza nella ricchezza, cosa che però ha contribuito molto poco in termini di emissioni di gas serra. La disuguaglianza nella distribuzione economica è l’impianto del capitalismo. Il colpevole della crisi ambientale è la disuguaglianza associata alla produzione economica capitalistica.

Consapevolmente o no, il rapporto fa rivivere un’analisi di classe marxiana globale applicata alla distruzione dell’ambiente. Rinunciando alla pretesa “antropogenica” universalistico-umanista che “tutti” siano responsabili del riscaldamento globale, degli oceani morti e del cibo geneticamente modificato, Oxfam identifica chiaramente il pezzo di umanità maggiormente responsabile, ossia le “nazioni” ricche. Ciò che unisce queste “nazioni”, come se esistessero nazioni senza il loro essere costituente e le loro istituzioni, sono le prassi economiche direttamente riconducibili allo sviluppo economico capitalistico. La “ricchezza” in questione è chiaramente la ricchezza capitalistica misurata in palazzi e conti bancari, non in acqua pulita, aria pulita e in numero di relazioni sociali intrecciate strettamente dalle persone.

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In questo quadro, la produzione economica che causa il riscaldamento globale è entropica senza che sia considerata tale: le “merci” occidentali sono inesorabilmente legate ai mali occidentali e non occidentali quali la distruzione ambientale e sociale. Se le merci potessero essere prodotte senza i mali, dove sarebbero le prove? Qui entra in campo la storia delle COP (Conferenza delle Parti): 21 conferenze e confronti con le emissioni di gas serra che continuano a crescere dopo ogni singolo incontro. Anche la cornice del “cambiamento climatico” è progettata per sottovalutare l’ampiezza della devastazione ambientale: quale teoria dell’isolamento ambientale suggerisce che gli oceani morti e morenti e la continua perdita di ecosistemi interconnessi siano meno pressanti rispetto al riscaldamento globale?

Oxfam scatena le dinamiche di classe sia all’interno che tra i vari paesi. Gli interessi nazionali nell’ambito delle COP sono arbitrari e fuorvianti in quanto il capitalismo e la produzione capitalistica di Stato è transnazionale. Dalla fine degli anni 1980, la produzione sporca occidentale è stata spostata prima nelle maquiladoras in Messico, poi nel neo/post-coloniale Oriente e nel Sud globale. Come la vulgata dominante indica nella “tecnologia” la causa della riduzione dei salari nell’Occidente sviluppato, così la produzione “pulita” viene propagandata per spiegare il declino delle emissioni di gas serra delle nazioni sviluppate, mentre in realtà i flussi commerciali attestano lo spostamento della produzione sporca dagli Stati Uniti e dall’Europa alla Cina, all’origine di qualsiasi calo effettivo. Legando la distruzione ambientale alla ricchezza, e con essa le divisioni di classe intra e internazionali, il riflettore viene puntato dove dovrebbe: sui beneficiari delle calamità ambientali.

Aggiunge complessità al ruolo della politica economica in questo processo, la creazione di denaro quasi-privato del sistema bancario capitalista, che usa la “ricchezza” intercambiabile come leva del controllo sociale sui mezzi di produzione economica occidentali. In questo caso, l’entropia economica fornisce una scala utile data la natura contestuale della catastrofe ambientale: è la scala della produzione capitalistica che si è aggregata al riscaldamento globale. Lo scarico “efficiente” delle conseguenze indesiderate di questa produzione produce profitti. La finanza facilita la mobilità e con essa la capacità di scaricare le scorie della produzione capitalistica su quelli meno in grado di resistere. Con riferimento alle inferenze malthusiane sull’entropia economica, la storia delle emissioni di gas serra seguono lo sviluppo capitalistico troppo da vicino per essere considerate accidentali.

Lo scopo della conferenza COP21, in quanto riferita agli interessi delle nazioni “sviluppate”, è quello di fornire la parvenza di azioni per il clima, senza fatti. Speranze puntate su “leader” che rappresentano gli interessi economici alla base del loro potere e della loro posizione, sono fuori luogo. Correlato e analogo è il trattamento da parte dei “leader” occidentali dei finanzieri che così recentemente hanno schiantato l’economia globale attraverso il self-dealing [benefici monetari facilmente trasferibili, cioè originati dal trasferimento di risorse economiche dell’azienda, ndt]. Questo self-dealing “locale” che è la quotidianità del capitalismo a livello globale, diventa catastrofica attraverso l’aggregazione dei “non voluto” individuali che portano alle crisi ricorrenti. La relazione tra azioni individuali e istituzionali alla crisi sistemica è socialmente gravosa quando applicata agli affari, ma potenzialmente catastrofica se applicata all’ambiente.

La disuguaglianza in materia di cambiamenti climatici si trova con uno sproporzionato potere sociale grazie a strumenti di coercizione politica e al loro legame storico con la produzione capitalistica. I rapporti Stato-mercato del primo capitalismo britannico sono stati un modello approssimativo per lo sviluppo economico cinese, con la produzione per l’esportazione, distruttiva per l’ambiente, a tenere “su” la catena dell’approvvigionamento globale. Il governo cinese sta cercando attivamente di aumentare i consumi interni, con la premessa che una economia di consumo autosufficiente fornirà stabilità politica. Questo insieme dinamico in movimento è la proverbiale gara-al-ribasso, dove le esigenze di breve termine hanno continuamente la precedenza sullo sviluppo eco-sostenibile. Qualunque siano gli impegni ambientali, le minacce e le crisi ricorrenti li terranno perennemente nel cassetto.

Il passato-presente-futuro dell’ideologia capitalista si muove senza soluzione di continuità da un passato rozzo e distruttivo per l’ambiente a un “migliorato” seppur imperfetto presente, verso un futuro scintillante e prospero. Un futuro che non arriva mai. La produzione sporca non è mai stata lasciata alle spalle e il capitalismo di mercato “emergente” servirà come luogo della distruzione ambientale in outsourcing per tutto il tempo che i popoli lo sopporteranno. Gli impegni ambientali non sono che una crisi del capitalismo guardata alla rovescia per via di una disperazione indotta. L’attenta analisi di queste crisi, viste come incidenti estranei ai normali meccanismi del capitalismo, fornisce una copertura alle macchinazioni imperialiste, facendole passare come fatti naturali. Nelle crisi il discorso politico si sposta su compromessi egoistici mentre gli economisti si sforzano di trovare il modo migliore per ripulire i guai inspiegabili che la natura ha compiuto.

Recenti accordi “commerciali” come il TPP (Partenariato transpacifico) e il TTIP (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti) rappresentano i tentativi di vincolare le istituzioni statali al sostegno dell’impresa “privata”, mentre restano precluse azioni statali nel pubblico interesse che ledano il “potere economico privato”. Attraverso i tribunali dell’ISDS (Investor-State Dispute Settlement, vale a dire la “regolamentazione delle controversie tra Stato e investitore”) le corporation quantificano l’entropia della produzione capitalistica come loro risarcimento per danni non causati. La strategia del “pagherete o vi bruceremo la casa” è sepolta, è una mitologia sociale e teoria economica poco considerata. Tuttavia, l’estorsione resta estorsione, indipendentemente dalla complessità degli accordi istituzionali che l’accompagnano.

La mitologia dello sviluppo capitalistico mette a confronto regioni come l’Appalachia, distrutta dalle miniere di carbone nel XVIII secolo, al capitalismo “pulito” degli hedge fund quando il confronto più rilevante è quello con regioni della Cina, dell’Africa e delle Filippine distrutte nel presente per produrre le merci da esportare negli Stati Uniti e in Europa. La concezione capitalistica delle conseguenze della produzione economica è più precisamente la contabilità del giocatore d’azzardo, dove solo i crediti vengono segnati. Aria respirabile, acqua potabile e terre coltivabili sono considerati alla stregua di servizi igienici industriali, la componente “gratuita” utilizzata per dare ai prodotti un valore economico. Il “paradosso” di questi beni di prima necessità senza valore opposti al valore dei beni non di prima necessità è una conseguenza imperiale imposta come teoria di vita: sono “gratuiti” solo una volta che le persone che dipendono da loro per la loro esistenza sono state rimosse dalla considerazione.

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Il differenziale di potere al lavoro, “la disuguaglianza”, contrappone il mito occidentale che “noi tutti” beneficiamo della produzione capitalistica contro il fatto che i ricchi possono mentre la povera gente no. Anche se le conseguenze della distruzione ambientale fossero equamente distribuite, rappresenterebbero ancora una questione economica, perché la loro sorgente è la produzione della “ricchezza” occidentale. Che tali conseguenze cadano in maniera sproporzionata sui popoli che vedono poco o niente del beneficio di tale produzione, definisce una chiara dinamica di classe. Le soluzioni occidentali uniscono giochi delle tre carte come la delocalizzazione della produzione sporca con le promesse perpetue che in futuro saranno intraprese azioni concrete. Le uniche certezze sono che i capitalisti e i loro apologeti sono in procinto di rendere il pianeta inabitabile e le eventuali soluzioni reali si trovano a dispetto degli incontri “ufficiali” e non per loro merito.

* Rob Urie è un artista ed economista politico.

Choussodovsky: Perché viene condotta una campagna d’odio contro i Musulmani?

Perché viene condotta una campagna d’odio contro i Musulmani?

 

Prof. Michel Chossudovsky  | globalresearch.ca   –   10 dicembre 2015.

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare. Vai a Resistenze, per altri articoli.

  1. Perché viene condotta una campagna d’odio contro i musulmani?
  2. Perché sono i Musulmani ad essere sempre più etichettati come terroristi?
  3. Perché questa campagna d’odio diviene parte della campagna elettorale per le presidenziali americane? 
  4. Perché Donald Trump chiede misure liberticide di polizia federale contro i Musulmani d’America?
  5. Perché i Musulmani sono oggetto di schedatura etnica e discriminazione sul lavoro? 
  6. Perché il Presidente Francese Francois Hollande ha sospeso i diritti civili in corrispondenza di una campagna d’odio diretta contro i Musulmani di Francia, i quali rappresentano il 7,5 % della popolazione del paese?
  7. Perché è l’occidente a condurre una guerra contro nazioni Musulmane?  
  8. Perché l’Islam è visto come male assoluto?

La risposta a queste domande è insieme semplice e complessa.

Si dà il caso che più del 60% delle riserve mondiali di petrolio greggio sono locate nelle terre Musulmane.

I Musulmani sono gli abitanti delle terre che possiedono il Petrolio. E l’agenda imperiale dell’America prevede l’acquisizione della proprietà e del controllo delle riserve mondiali di petrolio.

Se queste terre fossero abitate dai Buddisti, i politici occidentali – col solito supporto dei media mainstream – demonizzerebbero i Buddisti.

I paesi Musulmani, inclusi l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Iran, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, lo Yemen, la Libia, la Nigeria, l’Egitto, L’Algeria, il Kazakhistan, l’Azerbaijan, la Malesia, l’Indonesia, il Brunei, possiedono il più del 60% delle riserve mondiali di petrolio greggio.

Con riferimento al greggio convenzionale, (escludendo quindi il greggio delle sabbie bituminose di Venezuela e Canada) la percentuale delle riserve di petrolio globale (greggio convenzionale) nei paesi Musulmani è molto più grande.

I paesi che possiedono grandi riserve di petrolio greggio sono tutti obiettivo di destabilizzazione.

Più del 50 % delle riserve di greggio mondiali giacciono all’estremità della penisola araba e nel bacino del Mar Caspio: Yemen, Arabia saudita, EAU, Kuwait, Qatar, Iran, Iraq, Siria, Azerbaijan.

Mappa: copyright Eric Waddell, Global Research 2003

La regione sopra rappresentata nella mappa è il teatro di guerra dell’America. Là dove la guerra per il petrolio viene combattuta sotto la bandiera della “guerra al terrorismo”. Queste sono le terre Musulmane individuate quale obiettivo di conquista o per un rovesciamento e cambio di regime. L’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo Persico insieme agli emirati sono paesi vicini agli Stati Uniti e solidamente sotto il controllo dell’America.

La demonizzazione collettiva dei Musulmani, compresa la denigrazione dei principi dell’Islam, viene praticata in tutto il modo e costituisce, a livello ideologico, uno strumento di conquista delle risorse energetiche mondiali. E’ parte di un più ampio meccanismo di egemonia politica ed economica che va sotto il nome di Nuovo Ordine Mondiale.

Questa denigrazione viene portata attualmente avanti attraverso la creazione di organizzazioni terroristiche formate da Musulmani, come parte di una operazione di intelligence di vecchia data, risalente alla guerra tra Unione Sovietica ed Afghanistan

Al Quaeda e le organizzazioni ad essa affiliate sono creazioni della CIA. Non sono prodotto della società Musulmana. Gli attacchi terroristici sono posti in essere da gruppi jihadisti coordinate con le attività è le finalità di intelligence della CIA.

Lo Stato Islamico (ISIS) è uno strumento di intelligence che viene essenzialmente usato per due scopi specifici.

1. Sono le truppe di terra dell’alleanza militare occidentale, gli strumenti per la destabilizzazione, reclutati, addestrati, finanziati dall’alleanza militare occidentale. Le varie entità di Al Qaeda sono gli strumenti di destabilizzazione nelle vicine guerre supportate da USA e NATO (AQUIM nel Mali, Boko Haram in Nigeria, l’ISIS in Siria ed Iraq). Nello stesso tempo, esse costituiscono un pretesto ed una giustificazione per l’intervento  militare sotto l’insegna di una campagna di bombardamento “antiterrorismo”.

2. Sul fronte interno, le varie cellule terroriste ISIS/Al Quaeda – supportate in modo occulto dall’intelligence occidentale – sono gli strumenti di una diabolica e criminale operazione propagandistica consistente nell’uccidere i civili innocenti con l’obiettivo di fornire legittimazione all’instaurazione di misure securitarie di polizia asserendo di difendere la democrazia. Queste operazioni di attacco sotto falsa bandiera (false flag) (1) asseritamente perpetrate da organizzazioni terroristiche sono in seguito utilizzate per aizzare l’opinione pubblica occidentale contro i Musulmani.

L’obiettivo sottostante è quello di condurre una guerra illegale di conquista nel Medio Oriente sotto l’insegna della “guerra globale al terrorismo”. Secondo i politici occidentali “noi ci stiamo difendendo dai terroristi”. Secondo i nostri governi, i bombardamenti asseritamente diretti contro i terroristi in Siria “non sono un atto di guerra”, sono presentati alla pubblica opinione occidentale come “atto di autodifesa”. “L’Occidente è sotto attratto da parte dei terroristi dell’ISIS”, l’ISIS ha base a Raqqa, nella Siria del Nord, “noi dobbiamo difendere noi stessi” bombardando l’ISIS.

Ci viene detto che non è un atto di guerra, che è invece un atto di legittima ritorsione e di autodifesa. L’unico problema con questa operazione di propaganda è che “I terroristi siamo noi”, i nostri governi e i nostri servizi segreti hanno sempre supportato l’ISIS fin dal suo primo apparire.

Negli occhi dell’opinione pubblica, avere una “giusta causa” per condurre una guerra è di importanza centrale. Una guerra è accettata come giusta se viene combattuta su un terreno di giustificazioni etiche, religiose, morali. I Musulmani vengono denigrati nei paesi occidentali come parte di un progetto imperialista, come mezzo per destabilizzare i paesi Musulmani sul terreno dei diritti umani (p.e. Iraq, Siria, Libia, Nigeria, Yemen).

L’America sta conducendo una santa crociata contro i Musulmani ed i paesi Musulmani. La “guerra al terrorismo” pretende di difendere la Patria Americana e proteggere il “mondo civilizzato”. Viene accolta come una “guerra di religione” o come uno “scontro di civiltà”, laddove nei fatti il principale e vero obiettivo di tale conflitto è quello di assicurarsi il controllo e la proprietà per le multinazionali dei vasti giacimenti di petrolio della regione.

Guardando la storia, la denigrazione del nemico è stata applicata più volte. le Crociate del Medioevo consistevano nella demonizzazione dei Turchi, degli infedeli e degli eretici con l’obiettivo di giustificare una guerra di conquista militare.

La demonizzazione serve obiettivi economici e geopolitici. Allo stesso modo, la campagna contro il “terrorismo islamico” (che è occultamente creato e supportato dall’intelligence statunitense) serve in realtà alla conquista delle ricchezze petrolifere.

I Musulmani sono equiparati in tutto e per tutto a terroristi: l’islamofobia serve a condurre campagne d’odio su scala nazionale in Europa e Nord America.

Si tratta di uno strumento di propaganda di guerra utilizzato per denigrare la storia, le istituzioni, i valori ed il tessuto sociale dei paesi Musulmani, nello stesso tempo prospettando i  principi della “democrazia occidentale” e del “libero mercato” come l’unica alternativa per questi paesi.

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Note:

N.d.t.:  false flag potrebbe rendersi in italiano con il concetto di operatività sotto falsa bandiera. Si intende un artifizio tattico segreto utilizzato nell’ambito di operazioni militari o di spionaggio poste in essere dai governi o dai servizi segreti. Consiste nel fare apparire una determinata azione come posta in essere da altre organizzazioni, parti od entità assertivamente o realmente nemiche. Ciò viene condotto tramite attraverso l’infiltrazione in organizzazioni esistenti realmente contrapposte ovvero attraverso la creazione vera e propria di organizzazioni asseritamente contrapposte, ma in realtà dirette dai governi, dai servizi o dalle entità militari delle vittime o dei loro alleati od allineati. Deriva dall’espressione in lingua inglese false flag, ossia “bandiera falsa”, probabilmente utilizzata in operazioni coperte di tipo navale. L’idea è quella di “firmare” una certo attacco “issando” la bandiera di un altro stato o la sigla di un’altra organizzazione.

 

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