Gli occhi miopi sul referendum UE

Enzo Pellegrin

20/06/2016, resistenze.org n. 594

Chi attrae i fili della politica italiana è capace di tenere i propri satelliti molto vicini al centro.

Lo dimostra – come sempre – l’attenzione grandissima conferita ai cambi di cavallo nelle battaglie elettorali comunali, mentre sullo sfondo galleggiava una nuova problematica consultazione referendaria, quella che metteva in discussione nel Regno Unito l’Unione Europea.

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Le tematiche circolate mediaticamente su quest’ultimo argomento vertevano intorno a due poli. Da un lato le paure agitate anche nel nostro paese sull’inopinata uscita della Gran Bretagna, non mancando di asserire – come solito – la mancanza di conseguenze sulla nostra economia… Dall’altro la sapiente grossolana descrizione dei sostenitori della Brexit come arroccati intorno ad un blocco sciovinista e populista dominato dalla paura dell’immigrazione, col condimento del tempestivo fatto di sangue ai danni della deputata Jo Cox.

Sono lontani anni luce dal ragionare se il prossimo referendum coinvolga o meno uno dei pilastri principali del nostro sistema economico con le sue responsabilità.

Se in Italia esiste un pur splapito fronte di riflessione e resistenza nei confronti del ruolo economico ed antipopolare di queste istituzioni internazionali, questo è sapientemente deviato, evitato, silenziato, mescolato con la parziale questione dell’uscita dall’Euro, sapientemente aggirato anche dalle nascenti forze di opposizione.

Proprio Luigi Di Maio, all’alba dei successi comunali del M5S di Roma e Torino, ribadiva il corso capital-friendly del nuovo cavallo, dichiarando, in un post sul social network Facebook: “adesso tutti vorranno capire cosa siamo, chi compone questa splendida comunità e i cambiamenti che vorremo realizzare. …. Mi rivolgo alle ambasciate e ai capi di Stato dei Paesi di tutto il mondo, ai giornali stranieri, ai rappresentanti della finanza e dell’economia mondiale: non affidatevi ai giudizi dei nostri oppositori o ai soliti titoloni strumentali, venite a conoscerci di persona, saremo lieti di raccontarvi questa splendida realtà che da oggi governa Roma e Torino”.(1)

Non c’è dubbio che quanto però succede a Roma e Torino dipenda quasi interamente da quanto decide e come decide Bruxelles.

Molta intellighenzia che muove il fronte referendario del NO di ottobre, mentre spreme ogni goccia di sudore nel denunciare l’attacco alla democrazia della riforma renziana, non pare rendersi conto che giovedì sarà tratto sul banco degli imputati l’agglomerato decisionale più potente. Un solido comitato di affari che la democrazia non l’ha mai vista né mai l’ha voluta scorgere da lontano, neppure nella forma addomesticata alla maggioranza prevista nelle modifiche alla Costituzione, un meccanismo “ultrarenziano” i cui processi decisionali più importanti sono affidati ad organismi non elettivi come la Commissione Europea e la BCE.

Porre l’accento su questi temi suscita – nel panorama italiano – uno scetticismo pari a quello che incontravano i navigatori che progettavano di superare le colonne d’Ercole.

Le questioni che ruotano attorno all’uscita di uno Stato membro dall’UE non sono infatti confinati all’abbandono della politica di immigrazione, ovvero al “recupero dell’indipendenza”, od alla propria moneta (la Gran Bretagna non era nemmeno nell’Euro).

Alla base del malcontento popolare nei confronti dell’UE sta la semplice considerazione che l’UE è il principale attore, incontestabile ed impermeabile, delle politiche antipopolari.

A fianco di ciò, si agita ormai inevitabilmente la “delusione europea”. L’Unione ha coperto i suoi veri scopi con una congerie di diritti e concetti bandiera: la libertà dei viaggi, il multiculturalismo, lo studio all’estero, la facilità degli acquisti, la sprovincializzazione. Oggi questi benefici si scoprono inutili e non fruibili da grandi masse popolari. Queste ultime non solo non hanno mai visto nell’UE la soddisfazione dei propri bisogni (e non avrebbero mai potuto vederla) ma vengono precipitate in condizioni di povertà proprio dalle politiche autoritarie dell’Unione.

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I disoccupati nell’UE ammontano ad oltre 22 milioni, la disoccupazione giovanile è maggiore del 20%, ma la soglia di individui che rischia di precipitare sotto la soglia di povertà è del 25%: un quarto della popolazione del territorio più avanzato del mondo è povera.(2) In essa sono compresi non solo coloro che non dispongono fonti di sussistenza, ma anche i cosiddetti “poveri da reddito”, coloro che mettono al servizio del capitale la propria forza lavoro ma non ne ricavano un reddito sufficiente per il proprio mantenimento. L’UE, per citare un esempio, è il luogo del mondo in cui il cibo costa di più.(3).

Questo è il risultato statistico dell’UE: il suo “come”.
E’ della massima importanza comprendere “perchè” ciò avviene.
Attorno a questa domanda ruotano importanti questioni che la politica e i media mainstream lasciano covare sotto la cenere, cercando di spegnerle.

  1. L’UE non è nata per i bisogni dell’uomo, non agisce per i bisogni dell’uomo.

Fin dal 1957 il Trattato Di Roma strutturava un “mercato comune”, un luogo istituzionale per consentire via via nei suoi successivi sviluppi la libera e più profittevole circolazione dei fattori produttivi: merci, servizi, capitali e persone, intese come forza-lavoro, ovvero come “consumatori”.

I successivi sviluppi istituzionali non prevedevano una federazione politica di popoli, ma una successiva integrazione di processi decisionali che venivano “sottratti” ai popoli. Il Parlamento Europeo (unico organo elettivo) non ha mai avuto ruolo influente sui processi di decisione, i quali sono concentrati su organi non elettivi (la Commissione Europea) ovvero su organi del tutto indipendenti e a struttura addirittura privata (la BCE).

Il contenuto dell’apparato normativo è stato volto via via a soddisfare i bisogni fondamentali delle concentrazioni monopolistiche, a seconda dello stadio in cui essi si manifestavano.

Quando la crisi di sovrapproduzione ha determinato l’impiego di capitali all’interno di pratiche finanziarie rischiose oppure di rigonfiamento del debito, gli squilibri che ne sono derivati hanno portato gli organismi decisionali dell’UE all’adozione della politiche di austerità, le quali non sono altro che il mezzo per limitare i danni della crisi al capitale attingendo alla ricchezza prodotta dalla società.

Esse hanno:

disposto il riequilibrio a spese della collettività, mediante fondi raccolti dagli stati, degli istituti finanziari vacillanti; nello stesso tempo la procedura di riequilibrio faceva in modo che la ricchezza venisse via via concentrata nelle banche più forti, le quali gestiscono di solito il fallimento delle più deboli;

imposto il controllo del debito sovrano, ma anche dei debiti delle imprese e delle persone fisiche, sorvegliandone la soddisfazione soprattutto nell’interesse dei monopoli finanziari che li possiedono

Per far ciò hanno imposto ricette di controllo delle economie nazionali che in varia misura ed in vari modi esautorano ogni autonomia governativa sia attraverso le direttive sugli istituti bancari, sia attraverso le “lettere” ed i “memorandum” imposti ai vai governi, sia attraverso l’istituzione di modifiche costituzionali e trattati di stabilità finanziaria (dal fiscal compact alla nostrana modifica dell’art. 81 della Costituzione, per giungere alla strategia “Europa 2020” che prevede una governance economica rafforzata e sempre più limiti alla sovranità economica degli stati) che impediscano la messa in discussione degli interessi degli investitori privati di capitale.

Hanno da ultimo concentrato sullo sfruttamento della forza lavoro un fattore importante per mantenere la competitività e la redditività dei monopoli industriali e finanziari privati europei sul mercato internazionale. Con le varie legislazioni sul lavoro, in quasi tutti i paesi della Ue si sono cancellati diritti sindacali, limitati i diritti di sciopero, attuata la libertà per il padrone di licenziare senza rilevanti conseguenze economiche, con l’obiettivo di aumentare il tasso di sfruttamento della forza lavoro, tenere alti i valori della disoccupazione onde trarre benefici da un ingrossamento dell’esercito industriale di riserva.

2. L’UE è oltre gli Stati ed oltre i popoli

Nel perseguire i suoi fini, l’Unione Europea ha instaurato una sovrastruttura giuridica che prescinde ed è in grado di imporsi sulla sovranità dei suoi singoli stati membri. Essa è in grado non solo di fermare e guidare i governi, ma anche di imporsi sui Tribunali dei singoli Stati. Ai suoi trattati ed alle sue fonti è stato dato valore e forza di legge superiore a quella statale. Una simile forza è disgiunta da qualsiasi controllo “dal basso” e da qualsiasi censura che possa provenire da coloro che debbono subire le decisioni, le quali determinano spesso effetti a lungo termine che ricadono inevitabilmente sulle spalle degli equilibri sociali dei singoli Stati e dei singoli popoli e territori. Pochi ricordano che, ad esempio, la privatizzazione dell’impianto siderurgico di Taranto, che determinò l’acquisto dell’ILVA, dei Riva con la loro nefasta gestione, fu imposto proprio dall’UE nell’ambito della politica di svincolo della produzione di materie prime dalla proprietà pubblica. A copertura di ciò, l’UE contrappone istituzioni e diritti individuali “di facciata” della cui vera realizzazione si disinteressa, slegandoli dall’equiparazione delle condizioni economiche, fattore necessario per il loro godimento. Crea un individuo con mille opportunità personali e mille sogni, ma che non ha la possibilità di acquistarli.

3. L’UE è veicolo di guerra contro l’autodeterminazione dei popoli.

L’Unione Europea si è sempre alleata con la NATO e ne ha sempre condiviso le guerre imperialiste di aggressione: dall’Afghanistan all’Iraq, per giungere alla Libia e da ultimo alla Siria, spesso occultando tali interventi con il pretesto della lotta al terrorismo o ad organizzazioni terroristiche come Al Qaeda, Daesh ed Isis addestrate finanziate ed iniettate come elemento destabilizzante proprio dalla Nato e dai suoi alleati. Oggi truppe francesi si stabilizzano a Kobane, sfruttando le zone liberate dai curdi, più con l’intento di colpire il governo siriano che di combattere quel Daesh che sinora non avevano mai seriamente contrastato.

4. L’UE limita la libertà di pensiero.

Da ultimo, l’Unione Europea svolge un ruolo attivo nella limitazione di libertà politiche e di pensiero nei confronti delle organizzazioni politiche che si schierano a sostegno dei veri interessi della classe lavoratrice. Mentre una libertà di comodo è concessa a partiti veicoli di sciovinismo e di razzismo, in Polonia viene perseguito penalmente il partito comunista, la stessa UE svolge attiva pratica di anticomunismo, diffamando il contributo del socialismo al progresso dei popoli e dell’Europa, tentando in malafede, con una vera e propria riscrittura della storia, di equiparare le esperienze storiche di ogni tipo di socialismo o di conflitto sociale alla dittatura nazista, al disordine sociale, al terrorismo.

Lungi dalle aspirazioni idealiste di Altiero Spinelli, sparse a piene mani dalla classe dominante dell’epoca per favorire, in funzione antisovietica, la costruzione di un mercato comune interamente controllabile dai monopoli, l’Unione Europea ha edificato la propria struttura come strumento giuridico e politico di un’alleanza tra le classi dominanti ed i proprietari dei fondamentali mezzi di produzione e del capitale. Esprime e serve gli interessi di questi raggiungendo un potere enorme: quello di sovrastare i singoli sistemi politici, democratico-borghesi o meno che siano.

Il suo operare ha sicuramente creato contraddizioni anche all’interno della stessa borghesia.

Nel fronte anti UE si trovano oggi, per interessi totalmente diversi, quegli strati della borghesia impoveriti e pauperizzati dalla stretta finanziaria, eliminati dalla selezione “in alto” del mercato, oppure quegli strati che temono la concorrenza del blocco commerciale dei Brics, la posizione preminente della Germania e vedono l’Unione come una congerie di restrizioni e controlli a favore di monopoli più forti, sperando, con la sua uscita, di avere mani ancora più libere per lo sfruttamento dei fattori produttivi, tra cui il lavoro dell’uomo, ovvero di avere una maggiore “assistenza” dello Stato con politiche di incentivo, svalutazione competitiva ed altre misure di sostegno alle imprese. Spesso queste espressioni “centrifughe” della borghesia si uniscono alla critica all’UE portata su posizioni razziste e scioviniste, tentando di attrarre in quest’orbita le classi popolare che hanno sofferto le contraddizioni della crisi.

Così avviene in Gran Bretagna, dove il fronte maggioritario della borghesia anti UE è composto sì dall’UKIP, ma anche di quei settori dei conservatori preoccupati per lo strapotere tedesco, per la concorrenza dei BRICS e perché ritengono che gli interessi economici della loro classe dominante possano essere meglio gestiti sotto la sola ala dell’imperialismo USA, contro l’imperialismo di altri vasi di ferro nella UE.(4)

La presenza di questi centri di forza porta alla logica conclusione per cui l’eventuale uscita dall’UE da parte di uno stato membro non rappresenta di per se una panacea sociale od un trampolino di lancio per un cambiamento radicale della società.

Tuttavia essa mette in forse e contrasta gli interessi dei dominanti proprietari più potenti nel mercato globalizzato. Lo dimostra l’estrema lotta che questa parte di capitale internazionale svolge contro le sue tendenze “centrifughe”, lavorando su ogni campo per attrarre a se ogni strato della società che se ne allontani, riconducendo, appunto, all’interno di ogni sistema, i satelliti vicini al centro e conferendo credibilità a quelle forze politiche che mostrano comunque di non metterne in discussione il cammino. Lo svincolo dall’Unione Europea e dalla Nato può aprire contraddizioni degne di essere sfruttate. Una base per iniziare il rovesciamento di quel sistema economico che non può che portare necessariamente alle sue crisi. (5). Così come non è possibile cambiare o riformare l’Unione Europea, così non è possibile riformare o difendersi dalla natura del capitalismo se non sostituendo una produzione socializzata, avulsa da quella competizione tra uomini e popoli che porta con se’ lo sfruttamento di uomini e popoli.

Comprendere semplicemente che se chiude un asilo a Torino, se mancano case e lavoro a Roma, è perché a Bruxelles, non solo a Roma od a Torino, si è deciso così.

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Note:

1) https://www.facebook.com/LuigiDiMaio/posts/1050383891664823
2) http://www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtgf13-018056.htm
3) http://www.newworker.org/archive2016/nw20160617/say_no_to_eu_on_thursday.html
4) http://www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtgf13-018056.htm, vedi anche le interviste http://icp.sol.org.tr/europe/leaving-will-represent-defeat-bourgeois, e http://icp.sol.org.tr/europe/leaving-will-represent-defeat-bourgeois
5) Zoltan Zigedy, Sorry, There’is no fix, http://zzs-blg.blogspot.it/2016/06/sorry-there-is-no-fix.html

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